Il prossimo convegno in Gregoriana su Michel de Certeau vedrà coinvolti vari esperti su un tema di contesto che attraversa molta parte dell’opera del gesuita francese. Abbiamo chiesto a Diana Napoli, docente di Filosofia della storia e una delle principali organizzatrici dell’incontro, un breve dialogo su questo prossimo evento che prepara il terreno alla celebrazione del grande centenario della nascita di Certeau che si terrà l’anno prossimo.
Perché il tema della modernità, in Certeau, non può essere ignorato; perché la sua trattazione è ancora importante?
Innanzitutto, vorrei precisare che questo convegno è stato organizzato insieme a un docente dell’Università Cattolica, Davide Lampugnani che, proprio come me – e in maniera indipendente – stava lavorando a un libro su Certeau e la modernità. I nostri lavori sono usciti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro (il mio a settembre, il suo a dicembre) e prima delle rispettive pubblicazioni non ci conoscevamo. Eppure, lui sociologo, io storica di formazione, eravamo entrambi occupati da un tema simile, ovvero la questione della modernità in Certeau, segno che si tratta di una tematica che lascia ancora ampi margini di riflessione, come aveva, del resto, scritto, già nel 2000, Eric Maigret (che sarà uno dei relatori il 16 ottobre alla Pontificia Università Gregoriana) in un articolo illuminante dal titolo Les trois héritages de Michel de Certeau. Un projet éclaté d’analyse de la modernité. Per quello che mi riguarda, la modernità può essere considerata un’indicazione per una traiettoria di lettura (una delle diverse possibili) dell’opera certiana, che si può leggere, appunto, come un tentativo di analizzarla e definirne il paradigma epistemico. Un tentativo che ci consegna anche un’indagine sulla soggettività moderna e il suo rapporto con le istituzioni, sulla mediazione necessaria della scrittura come operazione necessaria alla costruzione dell’identità del soggetto (con una riflessione che parte dal mistico del XVII secolo Jean-Joseph Surin per arrivare fino a Freud), sulla natura e il ruolo dell’istituzione in un passaggio, quello dal mondo medievale a quello moderno, in cui una logica politica sostituisce quella religiosa nell’organizzazione del “corso del mondo”. Ecco quindi che La scrittura della storia è la scrittura moderna della storia (vero e proprio mito della modernità secondo Certeau), ovvero un’operazione che si giustifica partendo da un luogo sociale, codificando una pratica e utilizzando la scrittura per articolare il discorso e il reale; L’Invenzione del quotidiano ci mostra la fine della modernità, ci parla della fine di un’epoca – fine necessaria affinché se ne potesse scrivere, come viene chiaramente indicato nelle ultime pagine del libro; Fabula mistica racconta un tentativo, fallimentare, di ritrovare la voce (quella divina) capace di far corrispondere parole e cose, un tentativo disperato che teatralizza il corpo, utilizzandolo come spazio offerto a un’enunciazione che però rimane muta o incomprensibile.
Certamente Certeau non elabora una teoria della modernità e quindi è importante sottolineare come scegliere questa prospettiva costituisce un’operazione ermeneutica per far dialogare i suoi scritti e per tracciarci un cammino in quello che Luce Giard ha definito un “cammino non tracciato”.
Uno dei lettori più brillanti di Certeau, il prof. Martin Morales, Direttore dell’Archivio Storico della Gregoriana e che concluderà il convegno del 16 ottobre, ha sempre amato sottolineare come Certeau fosse un cacciatore di frodo (riprendendo l’espressione da Certeau stesso utilizzata per definire, ne L’Invenzione del quotidiano le pratiche di lettura). Ebbene, l’uso della nozione di modernità consente, a noi, di aggirarci tra i suoi scritti, come cacciatori di frodo a nostra volta.
Le opere di Certeau in Italia sono ormai diffuse da più di vent’anni. Quale fascino ancora oggi esercita su chi lo legge?
Io mi occupo di Certeau da più di 15 anni, da quando ho iniziato il mio dottorato all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales a Parigini, nel 2007, sotto la direzione di François Hartog. Vorrei prendere in prestito una battuta di uno dei più acuti conoscitori, a mio parere, di Certeau, lo storico e antropologo messicano Alfonso Mendiola (autore, peraltro, di un bellissimo libro su Certeau, Epistemología, erotica y duelo, tradotto anche in francese) che una volta, durante un convegno, disse che studiava Certeau da 30 anni perché non lo capiva.
Quello che, mi pare, significhi questa battuta non è tanto che Certeau è “difficile”, quanto che i temi di cui si è occupato, i suoi scritti, gli spazi del sapere che ha attraversato con disinvoltura, costituiscono una rete di rimandi da cui è difficile districarsi, certamente perché sono capaci di rappresentare una complessità, ma anche perché in qualche modo, quale che sia la prospettiva scelta, “tutto si tiene”: Certeau, in effetti, consente tanti approcci, ma non si può frammentare perché ogni approccio ne illumina un altro.
Certeau ha dedicato pagine molto suggestive nel primo volume di Fabula mistica all’analisi di un famoso quadro del pittore fiammingo Hieronymus Bosch, Il giardino delle delizie.
Osservandolo, nota Certeau, lo spettatore si trasforma in osservato. Non solo deve distogliere lo sguardo diretto perché si scopre continuamente sbirciato, ma ha un solo un modo per stare di fronte agli occhi che dal trittico lo spiano: inventare mille storie per navigare nel quadro, sapendo che nessuna sarà definitiva e che basta lasciarsi osservare, cioè alterare, per continuare a camminare tra le immagini la cui proliferazione e metamorfizzazione fa perdere ai corpi la propria unità simbolica. Bosch, ad avviso di Certeau, non mette in discussione la frontiera tra il reale e l’irreale o tra il fantastico e l’oggettivo, limitandosi a prendere atto che i significanti non sono più legati da un contratto stabile con i concetti, non costituiscono più il disvelamento di un mondo che, nel suo complesso, parlava e dunque si tratta di segni che rimaneggiati, slegati dalla logica tradizionale, producono un altro linguaggio, una glossolalia. Alle soglie della modernità, assumendo la stessa problematica dei mistici, ecco che Bosch ne “prende in prestito”, potremmo dire, le operazioni, costruendo però, nel luogo in cui un locutore ha smesso di parlare (cioè la voce di Dio ha taciuto) un “Giardino delle delizie” nel quale lo sguardo dello spettatore che cerca di dispiegarsi sul quadro si perde nei passaggi che il quadro stesso propone, nei limiti che sembrano segnati solo per essere sorpassati. E tuttavia, nel momento in cui questo spettatore perde la presa sulla visione (perde lo sguardo, in altre parole) e si trova spaesato, ecco che avviene la metamorfosi e si ritrova guardato, spiato e interrogato da un occhio che, osservandolo, sembra proporgli l’enigma della Sfinge: “Cosa dici tu, di ciò che sei, credendo di dire quello che io sono?”. Il quadro sembra inguardabile poiché ci sottrae lo sguardo osservandoci – e ci spinge a interrogarci sul senso. Certau funziona, per certi versi, proprio come il quadro di Bosch: ci lascia spaesati, ma solo per farci formulare ulteriori domande.
Certeau parla di modernità che per noi oggi è già un passato. Quali orizzonti futuri può aprire la lettura di Certeau per i lettori di oggi?
A dire il vero immagino sempre che prima di aprire degli orizzonti sia necessario continuare a contestualizzare Certeau per capirlo meglio e soprattutto per non fare della lettura della sua opera un’agiografia. Ci sono tante sue riflessioni che possono sembrare anacronistiche, che lo rendono – come è giusto che sia – un intellettuale che parla la lingua del suo tempo e che rimane nell’orizzonte delle questioni e delle problematiche, anche politiche, che il suo tempo sollevava e che oggi, riprese alla lettera, rischiano di favorire delle letture all’insegna di una “destituzione” che, a mio avviso, non gli appartiene. Quindi mi sembra che lo sforzo principale sia proprio non farne un “santino”, un profeta, un precursore… E’ uno sforzo difficile perché tanti suoi passaggi, tante sue intuizioni sono indubbiamente illuminanti, ma illuminano principalmente gli anni in cui ha scritto, pensato e operato come intellettuale, come osservatore di quello che accadeva e, ultimo ma non meno importante, come gesuita.
Poi, come ci siamo sforzati di dire sia io che Davide Lampugnani, la modernità è un passato, certo, ma è anche un fantasma. Parlare con questo fantasma, grazie a Certeau, ci rende almeno dei “discepoli” degli scholars del futuro. Senza il bisogno di rivolgersi al fantasma, ha scritto Derrida in Spettri di Marx, “quale senso ci sarebbe nel porre la domanda ‘dove?’, ‘dove domani?’”.
Lascia un commento